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BRA - CASERMA TREVISAN RICORDI E ALTRE COSE

di Valeria Testa

Un ex alpino, Terreno Antonino del 2°/66, sapendo che ho abitato per vent‘anni davanti ad una caserma mi ha chiesto di raccontargli qualcosa. Ho scelto tra i miei ricordi e ho provato a ripensare com’ero allora.

 

Da bambina abitavo in una casa di ringhiera, davanti al grande portone di legno della caserma Trevisan, con l’unica finestra della cucina, di fronte all’asta della bandiera, affacciata direttamente sulla garitta della sentinella.

Erano gli anni tra il ‘50 e il ‘70 del secolo scorso, in cui la caserma era in piena attività e, ad ogni nuovo turno, arrivavano settecento, ottocento reclute, perlopiù da paesi e frazioni delle montagne piemontesi, molte dal Veneto e qualche fortunato locale.

Le mie giornate erano scandite dai cambi di guardia per sostituire il malinconico alpino, con il suo inutile fucile in posizione di riposo, che si annoiava nella garitta in inverno e sulla pedana esterna in estate, pronto a scattare sull’attenti quando entravano o uscivano gli ufficiali, battendo fragorosamente il piede con lo scarpone pesante sulle assi di legno.

Di pomeriggio, svolgevo i miei compiti di diligente scolara delle elementari, sul davanzale della finestra, Mi ricavavo uno spazio tra il gatto che vi stava perennemente acciambellato e la piantina di serenella e tutti e due eravamo molto più interessati a quel che succedeva fuori che alle nostre faccende.

Gli alpini andavano e venivano nell’androne, si affacciavano sulla soglia, si ritiravano, parlavano con l’ufficiale di giornata con la sua fascia azzurra a bandoliera, con quello strano fervore della naia, fatto di mille cose di cui non si capisce bene lo scopo ma così rigido da legarti i pensieri e le azioni.

C’era un attimo di silenzio quando passava una signorina e tutti gli sguardi si puntavano su di lei. Cominciavano le risatine, i fischi, le allusioni, le domande senza risposta: - Che cosa fai stasera? Come ti chiami? Ce l’hai il fidanzato?

Le ragazze sole tiravano via veloci, i gruppetti scivolavano lentamente, con qualche  sorrisetto e qualche occhiata all’indietro. Le mamme diffidavano le figlie in età da marito dall’uscire con i militari dicendo: - Tanto loro vogliono solo divertirsi, poi se ne vanno e tu fai la figura di quella che se la fa con i soldati, Le ragazzine che cominciavano a guardarsi nell’ombra, facevano spallucce, ma gli incontri erano sempre piuttosto furtivi.

Le reclute arrivavano circa ogni tre mesi e mouvevano tutto un piccolo mondo all’interno e all’esterno della caserma. Dentro lavoravano il sarto, il calzolaio, il barbiere, fuori le trattorie, i negozi di commestibili, le tabaccherie, le stiratrici.

I nuovi arrivati non potevano uscire per una quindicina di giorni e venivano loro consegnate le divise.

Mia mamma ed io vivevamo di caserma. Il sarto veniva a casa nostra tre o quattro volte al giorno, carico di pastrani da stringere e accorciare in inverno e di pantaloni e camice in estate. Io aiutavo stirando le cuciture e facendo orli. Non capivo perché le divise non fossero mai della misura giusta.

Finalmente arrivava il giorno della prima libera uscita.

I neo alpini si ammassavano nel cortile, poi sfilavano davanti al Capo Posto e ai suoi scagnozzi, i terribili “veciu”, che facevano fare e rifare il saluto, non andava mai bene, davano pacche sulle spalle e anche qualche calcio nel sedere chiedevano in pegno qualche sigaretta da infilare sull’orecchio, poi lasciavano uscire tra schiamazzi e sogghigni: - Vai, vai, figliolo, impara la vita!.

lo mi rammaricavo vedendo i più timidi arrossire, confondersi, spesso inciamparsi sullo scivolo del marciapiede e gli dicevo sottovoce: - Non preoccuparti, lo fanno tutti, la seconda uscita sarà già routine.

Via Umberto, lunga e stretta, si riempiva di giovani in grigioverde, con il loro cappello, la bella penna lucida, indecisi su cosa fare e dove andare. A gruppi si disperdevano per le vie di Bra, parlando forte con la fiducia ritrovata e la voglia di dimenticare la lontananza da casa.

Molti affollavano la tabaccheria dell’isolato accanto o il negozio di Lina la stiratrice, che stirava le camice a buon prezzo, offriva generose scollature e uno spirito salace e pungente. lo li ero di casa perché alla sera andavo a consegnare piccoli lavori di riparazione che portava da fare a mia mamma. Mi vergognavo da morire ad entrare in quel piccolo negozio dove tutti stavano in piedi intorno al bancone, con i gomiti ben stretti, quasi appoggiati uno all’altro. Piccola e mingherlina, con il viso tutto un rossore mi insinuavo tra quei giovanotti, badando bene a non sfiorare nessuno e respirando l’odore acre del panno delle divise.

Temevo sopra tutto di essere riconosciuta perché poi, durante le discussioni con mia mamma, d’estate con le finestre aperte, mi arrivava sempre dal primo piano della caserma , dove c’erano gli uffici, una voce che mi ammoniva: - Stai brava, Valeria, non fare arrabbiare la mamma! Quando sarai grande ti sposo. Era l’unica cosa che riusciva a farmi ammutolire.

La sera, invece, era dolce e piena di vita.

Nel nostro cortile c’era la “Trattoria Della Nonna”. La nonna era Carmela, sempre vestita di nero, con la crocchia bianca, le gote rosse e i suoi cento chili di dolce e paziente cuoca.

Il locale si riempiva di affamati già alle sette di sera e all’estate i tavoli sotto la “topia” freschissima erano pieni. Davanti, i vasi di viole del pensiero di velluto scuro che Serafina, cognata di Carmela , vezzeggiava come bambini, coloravano la notte.

I piatti forti erano bistecche impanate, patate al forno, arrosto e buon vino, cucina semplice ma di gusto, adatta a sfamare chi voleva ritrovare un po’ di odore di casa.

Cominciavano le chiacchiere , le risate, i canti fino a quando faceva buio e si avvicinava l’ora del rientro in caserma alle 10.

Noi bambini che vivevamo di cortile, ci gustavamo la festa fino all’ultimo, seguendo con lo sguardo gli ultimi ritardatari, che se ne andavano in silenzio , improvvisamente immusoniti.

Il grande portone di legno scuro si richiudeva sull’ultimo soldatino.

Nelle calde sere d’estate, nella via silenziosa risuonavano dolcissime le note del silenzio. Talvolta, nei caldi pomeriggi capitava un trombettiere scelto chissà come, che ci straziava con i suoi allenamenti, ma quando, in un corso, si aveva la fortuna di trovare uno che ci sapeva fare, era una vera delizia. Io, già a letto, mi godevo ogni nota, sperando che la musica non finisse mai e mi addormentavo nel respiro caldo, che pareva oltrepassare il muro di quell’altra “casa” piena di gente. In quei momenti ero felice.

Provavo la stessa felicità nel periodo di Natale, quando veniva sistemata sotto l’asta della bandiera la stella con le lampadine tricolori, che riverberava la sua luce sui vetri della nostra finestra . Mi sembrava che, con una protezione così, mai niente di brutto mi sarebbe accaduto.

Passati i tre mesi dell’addestramento, si avvicinava il giorno del giuramento, che di solito si faceva a Bra, qualche volta a Cuneo.

lì sarto arrivava trafelato e diceva a mia mamma: - Sbrighiamoci, Agnese, dobbiamo finire tutto il lavoro, c’è ancora qualche riparazione da fare.

Di fronte, le corvèes di turno spazzavano il grande cortile, lavavano i vetri, pulivano l’androne e il portone e lucidavano i pomoli d’ottone.

Le donne del mio cortile si preparavano ad osservare la festa e le toilettes delle signore forestiere, dimenticandosi anche di preparare pranzo. Tina diceva: - Metto il bollito sul fuoco, così non mi perdo niente.

La domenica Paolin, pensionato, corrispettivo sul nostro portone della sentinella nella garitta dal mattino alla sera si preparava a dare consigli e indicazioni a chi veniva da fuori: - Cercatevi un posto all’ombra, perché qui va per le lunghe! Arrivavano mamme ansiose e preoccupate, chissà se mio figlio mangia e sta bene, papà che non lo davano a vedere, ma si alzavano e abbassavano sui talloni per vedere dentro la caserma e fidanzate che si lisciavano il vestito nuovo.

Iniziava la cerimonia e tutti stavano con il fiato sospeso, finché non si levava nel silenzio, alto e solenne il “Lo Giuro”. Così è e così sarà.

Ancora attesa:- Cosa fanno? Cosa succede adesso?

Finalmente, gli alpini neo consacrati cominciavano ad uscire ed era tutto un chiamarsi , un abbracciarsi, un raccontarsi cose con gli occhi lucidi e la voce esitante. Sicuramente c’era un senso in tutto ciò.

Da più parti si sentiva dire: - Dai figliolo, tre mesi sono passati, te ne restano nove di naia, ma vedrai che ti rimarrà qualcosa di buono.

La gente, che aveva gremito il marciapiede, cominciava a sciamare a piccoli gruppi, a famiglie riunite e la via tornava silenziosa.

Nei giorni seguenti cominciavano le partenze, per una destinazione o per un’altra, qualcuno si fermava a completare a Bra il suo periodo di ferma. Cosi via ciclicamente.

Negli anni successivi cominciarono a diminuire gli arrivi, finché la caserma fu chiusa per sempre.

Intanto io crescevo, anche la mia cittadina cambiava, ma non ritrovò mai più quell’allegria contagiosa e anche quella soffice malinconia che tanti giovani le avevano regalato.


 

 

 

 

 

 

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Ultimo aggiornamento 08 gennaio 2015