Ci tocca di partir... |
Tutto ha un principio Il 30 marzo 1966 con la chiamata al Distretto Militare di Genova presi coscienza che si stava avvicinando il momento di partire, solo un problema: mi avevano assegnato all’arma di fanteria! Io da sempre amante della montagna, ammiratore degli Alpini, corista nel Coro Monte Bianco del Gruppo A.N.A. di Rivarolo e iscritto al C.A.I. dovevo andare nella “buffa”. Ero veramente demoralizzato ma non mi arresi. Parlai della cosa ad un vecchio amico di mio padre, il compianto Guido R., che aveva svolto attività di segretario ad un Generale che per tatto non nominerò. Guido decise di rivolgersi a lui per cercare di rimediare alla cosa. La grande disponibilità del caro Generale ebbe i suoi frutti. Quando andai a ringraziarlo mi disse: “L’ho fatto volentieri”, disse il Generale, “di solito si cerca la raccomandazione per evitare il servizio militare e non per farlo dove si fatica di più” e mi congedò con un sorriso ed una stretta di mano.
Fu così, che grazie ad un’anomala raccomandazione, mi arrivò l’ordine di presentarmi il 3 giugno 1966 presso il CAR del 2° Reggimento Alpini a Bra in provincia di Cuneo. Soliti momenti di commozione di genitori e fidanzata. Fidanzata da alcuni anni e ora moglie da 36 di anni. Ricordo la partenza alla stazione con quella valigetta, notai subito altri ragazzi nelle stesse condizioni. Si vedeva lontano un Km che anche loro si accingevano a compiere una avventura che, nel bene o nel male, ti sarebbe rimasta impressa nella mente per tutta la vita. ”Anche tu parti per il servizio militare”, queste le domande di rito e ricordo ancora due bellissime risposte: si, io vado a Bra negli Alpini, e tu?”, “Anche io!” la risposta immediata con un sorriso enorme sulle labbra che voleva dire: dai, meno male che non sono solo. Perché bisogna ammettere che , anche se ben celato, un pò tutti, sia ragazzoni che ragazzini, qualche timore lo avevamo. Ricordo quel lungo viaggio in treno, allora almeno mi sembrava così, e l’arrivo a Bra. Scendemmo in molti da quel treno ma ormai noi eravamo assieme e avevamo fatto comunella. Un poco intimoriti dalle facce di chi ci stava aspettando per accompagnarci in caserma, la nostra nuova casa.
Il primo impatto Ricordo che il primo impatto mi sembrò surreale. Eravamo tutti schierati tra le urla di quelli: i famosi Caporali Istruttori. Solo il nome ti dava qualche timore. Quante volte avevo sentito amici più grandi di me parlarmi di queste figure temibili. Scoprii solo in seguito che ciò era una leggenda. “State sull’attenti, e fermi. Dove credete di essere in vacanza!” urlava qualcuno con la voce più forte degli altri. Ci venne spiegato che ci avrebbero diviso in Compagnie e qui, il primo timore di vedermi diviso da chi aveva iniziato questa avventura partendo da Genova con me. Che fortuna! pensai, quando ebbi la conferma che tutti e tre eravamo ancora assieme. Fummo destinati alla Compagnia di addestramento chiamata Saluzzo. Divisi in Plotoni e Squadre conoscemmo il nostro Caporale Istruttore. Questo sarà il nostro boia pensai e invece.... divenne il nostro angelo custode e ci accompagnò sino al Giuramento, fino a diventare Alpini. Si trattava di un certo Carrea, Carrea Gianni di Genova. Un amico innanzi tutto. Ricordo anche un altro Caporale, si chiamava Viale. No era della mia squadra ma anche lui era un gran bravo ragazzo. Altro momento classico dell’inizio della naja: la vestizione. Tutti al magazzino dove dopo qualche misura sommaria ti vestivano di tutto punto. Dalle mutande allo zaino per passare dalle famose scarpette ginniche. Mi sono sempre chiesto cosa mai avessero di ginnico quelle scarpe marroni, piatte e con una suola in gomma dura come quella dei pneumatici. Altro capo assurdo era quel cappottone lunghissimo che “non vi venga neanche in mente di accorciare” così sbraito qualcuno che non ricordo bene. Ma tra tante cose assurde e ridicole, qualcosa di veramente bello e per tanto tempo agoniato, era lì: il Cappello Alpino. Col senno di poi era una padella sformata con una penna di non ho so bene quale volatile che, secondo me, se ne era disfatto poiché anche lui aveva vergogna ad averla addosso. Però, come ho detto, per me era bellissimo.
La famosa iniezione. In una fila lunghissima che partiva dall’infermeria e scendeva lungo le scale sino al cortile attendevamo con qualche ansia il nostro turno. Le famose iniezioni venivano sparate a raffica uno dopo l’altro come succede negli allevamenti di polli durante le vaccinazioni per evitare epidemie e morie. L’impatto fu abbastanza spartano, pennellata di Tintura di Iodio e via col buco con tanto di foto per immortalare la nostra virilità e resistenza al dolore da mostrare alla ragazza. Insomma, non era poi così tremenda come mi avevano prospettato. Ci dissero che avremmo avuto un paio di giorni di riposo perché l’iniezione avrebbe fatto il suo effetto. Capii dopo circa mezzora, quando un dolore al petto e al braccio non mi permetteva i normali movimenti. Capii che la famosa iniezione non era terribile quando te la facevano, ma quando iniziava a dare i suoi effetti. Io devo dire che fui molto fortunato. Dopo un primo momento di dolore abbastanza forte la cosa si limitò a darmi qualche fastidio e non ebbi altro effetto. Purtroppo non si poteva dire la stessa cosa per molti altri. Dolori lancinanti, febbre altissima, diarrea e chi più ne ha più ne metta. Compresi che questa volta i soliti amici che ti spiegavano i supplizi della naja, non l’avevano detta grossa. Avevano avuto ragione. Due giorni passati a fare spola tra lo spaccio e la camerata per portare qualcosa a chi non riusciva o poteva alzarsi dal letto. Ma anche questo finì.
Addestramento formale Ricordo come fosse ora il nostro primo addestramento formale. Più che altro l’effetto che mi fece e il surrealismo che stavo vivendo. Mi scappava da ridere e mi sembrava impossibile che il nostro Istruttore prendesse sul serio quel: sinist-destr, passo, dietro-front. Mi sembrava di vivere un sogno. Avevo quasi vergogna perché mi sembrava un gioco da bambini che qualcuno stava prendendo troppo sul serio. Invece era l’abc della disciplina, del modello comportamentale e nel far capire che nulla doveva e poteva, in quell’ambiente, essere lasciato al caso. Tutto doveva essere codificato e univoco perché tutti dovevano aver chiaro cosa e come fare una cosa. L’addestramento formale ci accompagnò sino al giorno del Giuramento, giorno in cui doveva toccare la sua apoteosi. Alla fine non ti pesava più e anche tu entravi nell’ingranaggio ed eri soddisfatto quando tutto filava liscio e automatico senza errori di sorta.
Come ho detto eravamo divisi in Compagnie, Plotoni e Squadre. La mia squadra, come tutti sono sicuro diranno, era la migliore. Scherzi a parte non so se eravamo i migliori ma senza dubbio non stavamo male assieme. Ho un episodio che sfata anche ciò che tutti dicono. A militare rubano tutti. Una sera mentre ero in libera uscita con i soliti amici, mi accorsi di essere senza il portafoglio. Subito pensai di averlo perso poi, facendo mente locale ebbi il sospetto di averlo lasciato in bella mostra sul “cubo” tornai in caserma convinto che una banda di ladri si stesse dividendo i mie averi, comprese le foto della mia ragazza, poiché “a militare sono tutti ladri”. Feci le scale di corsa (allora vi riuscivo) e mi fiondai in camerata trafelato. Con gli occhi, diventati per l’occasione come quelli di un falco, entrai in camerata guardando nel mio angolo situato ad alcuni metri dall’ingresso, se così si può chiamare, era di fatto un corridoio che attraversava gli stanzoni senza chiusure di sorta. E con mia enorme sorpresa vidi il mio portafoglio in bella mostra sul “cubo” attorniato dagli spiccioli che avevo tolto dalle tasche. Neanche quelli mancavano. Subito pensai che come al solito mi avevano raccontato delle balle ma poi, ripensandoci bene, cominciai a pensare che la differenza era che nessuno dei miei informatori di cose di naja era mai stato negli Alpini. Soddisfatto di questo pensiero posai il mio Cappello che in quel momento mi sembrò ancora più bello.
Bruno |