Voglio
ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi
militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del
suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore
avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.
Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati,
soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa
siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo.
Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la
corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche
ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le
loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate
hanno marciato sulle loro case: invano.
L'essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si
ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da
migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e
muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di
essa si nutre.
Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a
volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.
Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai
nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche
gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo
blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci
aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone
per imboscate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo
afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al
passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.
Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere
l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a
scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle
porte del villaggio...
Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti,
trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai
sappiamo cosa vogliono: hanno fame.
Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a
occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella... Dei
loro padri e delle loro madri neanche l'ombra, il villaggio, il
nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria
di non essere li per giocare.
Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi
massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi
bene, sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico, porta con
sé il raccolto, stanno lavorando... e i fratelli maggiori , si
intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia
sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e
pecore ne sa qualcosa.
Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci
guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi
scopri che ne ha massimo trenta... Delle donne neanche l'ombra,
quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al
villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta
gradi all'ombra.
Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di
uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie
tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a
noi... Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati.
Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “brutta
cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai.” Ed eccomi qua,
valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano
copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi
ascoltarmi, ti direi “visto ,nonno, che te te si sbaià…”
Caporal Maggiore Matteo Miotto
Thiene (Vicenza) - Valle del Gulistan, novembre 2010
|